Addio Inpgi
Dal 1° luglio 2022 la cassa previdenziale dei giornalisti italiani dipendenti confluisce nell'Inps, con un debito di quasi 250 milioni di euro. Ma il futuro del giornalismo chi lo scrive?
Addio Inpgi. Dal 1° luglio 2022 la cassa previdenziale dei giornalisti italiani, gravata da un debito di quasi 250 milioni di euro, confluirà nell’Inps. Così si legge nella bozza della Legge di Bilancio che, salvo ulteriori modifiche, dovrebbe riguardare soltanto Inpgi 1, la cassa dei giornalisti dipendenti, mentre Inpgi 2, la cassa dei giornalisti liberi professionisti, resterebbe indipendente grazie ai suoi conti in ordine. La soluzione scelta dal Governo, approvata dal presidente dell’Ordine dei Giornalisti Carlo Verna e commentata con parole più tiepide dai vertici di FNSI e Inpgi, non scrive però la parola “fine” sulla crisi della categoria, e la storia dell’Inpgi rischia di rappresentarne il prossimo, tragico finale.
Per comprendere meglio le dinamiche che hanno regolato questi ultimi anni, occorre guardare alle redazioni, ormai spaccate fra pochi giornalisti dipendenti con contratti dorati e tantissimi giornalisti collaboratori esterni pagati pochi euro lordi al servizio. Si ripropone qui (dopo l’immagine) un articolo pubblicato il 24 dicembre 2020 sul blog Il parco di Giacomo, dal titolo “Crisi dell'Inpgi e precariato”. Perché ci sono ancora troppi nodi da sciogliere per poter tornare a parlare di futuro del giornalismo.
«Beh comunque non è che ti fanno lavorare gratis, ti pagano, quindi non devi lamentarti, dai basta». Una scossa elettrica. Ci sono frasi che, come fulmini, rompono l’equilibrio.
Un anno fa: ero in macchina con un collega, in viaggio verso una conferenza stampa. Mi stavo lamentando del mio contratto, uno sfogo in cerca di solidarietà dopo giornate particolarmente pesanti. Il collega era in pensione, ma oltre a quella percepiva uno stipendio sul quale ovviamente non pagava i contributi. Io ero pagato a pezzo, e per il servizio che stavamo andando a fare insieme sapevo già che avrei preso 4 euro (lordi, perché ci avrei pagato sopra tutti i contributi).
Oggi: alcune grandi firme del giornalismo italiano scrivono al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella per chiedere un intervento in favore dell’Inpgi, la cassa previdenziale dei giornalisti, che da anni soffre per una crisi profonda, riflesso di quella che attraversa la professione.
Cari colleghi, l’Inpgi si salva liberando dallo sfruttamento i giovani giornalisti precari, consentendo loro di lavorare dignitosamente (con una scrivania in redazione) e di essere retribuiti dignitosamente (con il contratto nazionale). Non avrà alcun effetto benefico nel lungo periodo allargare la platea della cassa ai comunicatori se le redazioni continueranno a rimanere luoghi chiusi, inaccessibili, dove un redattore anziano guadagna in un mese ciò che il giovane collaboratore esterno guadagna in un anno. Ma soprattutto non avrà nessun futuro la professione, se il giornalismo si trasforma in un lavoro per ricchi o nel passatempo di persone che vivono di altri lavori (il fenomeno cresce e i tristi effetti sono ben visibili).
Perché alla fine si torna al punto di partenza: senza giornalismo non c’è democrazia. Ma la democrazia interessa ancora a qualcuno? Non c’è democrazia se i cittadini non hanno la possibilità di sapere ciò che accade attorno a loro, dalla città al mondo. E sapere ciò che accade non significa leggere articoli copiati e incollati su qualche sito sconosciuto, non significa ascoltare messaggi audio anonimi ricevuti su WhatsApp, non significa cercare solo le opinioni che rassicurano le proprie convinzioni, indipendentemente dalla fonte. Non significa neppure fare la raccolta delle dichiarazioni dei politici, ormai facilmente e gratuitamente accessibili a tutti grazie ai social.
Il giornalista è quel professionista che si mette fra la dichiarazione del potente di turno e il cittadino e la verifica, la confronta con l’azione del politico, con il contesto, e poi la riporta al cittadino, certo, ma raccontando anche tutto ciò che c’è intorno. E dietro. Il giornalista è (e deve rimanere) quanto di più lontano possa esserci dal capo ultras, dalle tifoserie ideologiche e di partito e di lobby che sembrano imporre il copione al dibattito dell’opinione pubblica.
Il giornalista va dove la storia si scrive, sia essa storia con la s minuscola o maiuscola, e la racconta. Scrive per chi non c’era, perché conosca. Scrive per chi c’era, perché ricordi. Ci sono migliaia di eventi e voci e vite che senza i giornalisti cadrebbero nell’oblio. È il momento di rendersene conto e agire, dentro e fuori la professione.
P.S. Comunque, giusto per non lasciare dubbi, da quell’auto sono sceso. Et non, je ne regrette rien. (Riproduzione riservata)
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