Andy Rocchelli, fotoreporter a tempo indeterminato
Intervento di Giacomo Bertoni all'anteprima nazionale di "Ciao Andy, un abbraccio da Pavia", documentario prodotto da Ossigeno per l'informazione. Aula Magna dell'Università di Pavia, 27/09/2021
Abbiamo ascoltato le voci degli amici, ci hanno regalato un ritratto inedito: l’Andy amico, l’Andy compagno scout, l’Andy consigliere, l’Andy cantastorie, l’Andy modello da seguire. Noi di Ossigeno per l’informazione abbiamo conosciuto l’Andy fotoreporter indipendente, ci siamo avvicinati al suo lavoro attraverso il processo di primo grado a Pavia e quello di secondo grado a Milano. Lo abbiamo conosciuto così, dai suoi scatti più famosi, dagli ultimi video girati durante l’attacco, lo abbiamo conosciuto anche dagli sguardi della sua famiglia, da quelle udienze a volte infinite nelle quali l’idea di giornalismo di Andy risuonava senza sosta. E questa sera, volendo ricordare l’Andy Rocchelli collega, mi rendo conto che non è possibile scindere l’aspetto umano, così bene raccontato da voi, da quello professionale. Perché le voci di Pavia confermano il suo essere fotoreporter freelance eppure a tempo indeterminato.
Così, per parlare di Andy professionista, è fondamentale parlare di inquietudine e libertà. Ritrovo l’inquietudine nelle fotografie che Andy ha scattato nel 2009 a Beslan, nell’Ossezia del Nord, repubblica autonoma nel Caucaso Settentrionale. Una città schiacciata da un passato di conflitti e un presente minacciato dall’estremismo islamico, che in Cecenia ha stabilito una base fertile. Andy immortala il dolore delle donne che piangono i loro figli, uccisi cinque anni prima in un maxi sequestro di ostaggi, risoltosi in un bagno di sangue e non trovano pace: attorno a loro continuano le detenzioni illegali e i rapimenti compiuti da forze di sicurezza che godono dell’appoggio di Mosca. In uno scatto di Andy due donne si abbracciano e cedono a un pianto liberatorio. Si trovano forse in una chiesa di fortuna, un foulard copre il capo della donna più anziana, si vede sfocata una grande croce di legno, tutto il resto è in secondo piano. È il loro pianto che parla.
Inquietudine che esplode nelle fotografie scattate l’anno successivo a Osh, città che si trova a sud del Kirghizistan. Qui, dopo la caduta dell’Unione sovietica, la popolazione kirghisa e la minoranza uzbeca hanno intrapreso uno scontro che pare inarrestabile. Tra il 10 e il 14 giugno del 2010 si contano centinaia di morti e migliaia di sfollati. Interi quartieri abitati da uzbechi sono dati alle fiamme. Un’anziana donna uzbeca cammina a fatica in quello che rimane della sua casa. Si tiene al muro, forse è lei che tiene il muro ormai ridotto a brandelli. Il suo volto congela lo spettatore, perché è carico di una sofferenza infinita. La sua casa, i suoi ricordi, i suoi famigliari: tutto è ridotto in cenere e macerie. Andy è lì e fa ciò che ogni giornalista dovrebbe fare: immortala, rende eterno un istante di storia, fa in modo che possa essere conosciuto da chi non c’è e ricordato domani da chi lo vive oggi.
Ancora, inquietudine nel 2011, quando la Primavera araba porta migliaia di persone a cercare di fuggire dalla Libia. Muhammar Gheddafi risponde con violenza alle proteste di piazza e Andy, ancora una volta, è lì. In una foto un uomo, in primo piano, appare accucciato a terra. Il cielo sopra di lui è reso nero dai fumi della battaglia, sulla strada stanno arrivano due fuoristrada pieni di uomini armati. Cosa sta per accadere? Come sta quest’uomo oggi? L’inquietudine non è solo quella dei protagonisti delle foto: è Andy il primo inquieto, infatti è impossibile per lui rimanere troppo a lungo a Pavia.
Viaggia in Italia, dove indaga il mondo delle vallette e delle veline, con un fitto sottobosco fatto di concorsi di bellezza, speranze tradite e illusioni gonfiate, si ferma in Calabria, dove per il quotidiano Calabria Ora documenta le storie di chi dice “no” alla criminalità organizzata e ai suoi ricatti, pagando a volte con la vita. Proprio da questo lavoro colpisce un’immagine: un corteo funebre attraverso un vicolo stretto. Accanto alla bara, dalla parte opposta rispetto a Andy, una donna tiene accanto a sé un bambino, entrambi camminano accanto alla bara. I volti degli adulti sono in alto, sono nascosti, il bambino invece è più basso della bara portata sulle spalle dagli uomini e guarda verso Andy. È triste, spaventato: chi sta accompagnando al cimitero? Forse il suo papà?
Così, questa stessa inquietudine, non poteva che portare Andy nel 2014 in Ucraina. A Kiev, prima, per raccontare la rivoluzione di Maidan, e a Sloviansk, poi, per raccontare le condizioni dei civili coinvolti nella guerra fra esercito ucraino e separatisti filorussi. Proprio da questi reportage, che saranno gli ultimi, escono prepotentemente alcuni degli scatti più famosi di Andy, come quelli che ritraggono le famiglie ucraine che cercano rifugio in cantine scavate sottoterra. Tutti questi scatti, così inquieti, sono profondamente liberi. Liberi da audience e cacce all’ultimo clic. Non si tratta dei conflitti più mediatici, quelli che aprono i tg delle 20: chi ha mai visto su Rai1 all’ora di cena un servizio dedicato all’Ossezia del Nord? Eppure sono storia, storia con la S maiuscola. E dentro quella storia c’è anche la nostra storia.
Quei conflitti esistono e producono dolore, vittime innocenti, ingiustizie, soprusi: un male che si diffonde nel mondo. Ma senza un giornalismo di strada, come quello che faceva Andy, noi non sapremmo nulla. Noi vedremmo i frutti di questo male, ma non saremmo in grado di comprendere da che albero provengono. Lo sguardo dell’anziana donna uzbeca che ha perso tutto forse non parla anche a noi? Noi non c’entriamo niente? La distanza non bonifica l’ingiustizia.
Sono reportage liberi anche da quelle dinamiche del consenso che certo giornalismo sembra aver preso da certa televisione: i servizi devono essere semplici, semplicissimi. Il lettore alla prima riga deve aver compreso tutto. Evitiamo troppe domande e andiamo oltre, che le notizie di sport incombono. Non a caso, questi servizi nati sul campo non li fa più nessuno. E Andy lo sapeva bene: più volte si è visto offrire compensi a due cifre per fotografie costate settimane di lavoro in Paesi lontani. Sempre si è mosso da fotoreporter indipendente (ma a tempo indeterminato nell’animo), senza l’imponente contorno di persone e mezzi concesso agli ormai rari inviati speciali.
Andy, senza saperlo, è diventato amico di Ossigeno per questa condivisione di inquietudine e libertà. Perché, come ripete sempre il nostro direttore Alberto Spampinato, il giornalismo «è la linfa della democrazia, è ciò che rende la società in cui viviamo una comunità partecipata». Ma per farlo deve dare tutte le notizie, anche quelle scomode, quelle difficili da trovare e quelle che richiedono coraggio per essere diffuse. Insomma Andy, la tua città non ti dimentica e la nostra professione non può dimenticare che è chiamata ad andare là dove la storia si compie. Ci sono ancora tante storie da scrivere e noi lo vogliamo ricordare a tutti, lo vogliamo mettere bene per iscritto stasera aggiungendo anche la firma di Andy Rocchelli. Questo è il nostro “Ciao Andy”. (Riproduzione riservata)
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