Eutanasia legale? “Entusiasmo insano per la morte”
LETTERA Arriva l’ok al primo caso di suicidio assistito in Italia. Un papà scrive a Notturno: «Quanto ci metteranno a convincerci del fatto che non si potranno offrire cure a tutti?»
Non pensate nemmeno un istante di avere il diritto di sottoporre ad eutanasia un disabile. Non avrei mai pensato di dover scrivere una cosa del genere, nel 2021, in un’epoca nella quale si tende ad espandere lo spazio destinato al “diritto civile estetico”, comprese le rivendicazioni delle minoranze più ristrette (quelle, ad esempio, dei gender fluid desiderosi di vedere riconosciuto il proprio diritto di vincolarsi nel matrimonio con un oggetto). Un’epoca nella quale qualsiasi (e, sottolineo, qualsiasi) battaglia portata in auge dal materialismo di sinistra debba, a forza di bombardamenti mediatici, divenire obbligatoriamente la lotta di tutti, nessuno escluso, pena l’additamento quali pericolosi oscurantisti (nella migliore delle ipotesi) o fascisti da mettere a testa in giù (nella peggiore e per nulla remota possibilità).
Un’epoca dove si dà un valore assoluto praticamente a qualsiasi essere vivente occupante il suolo, le acque, l’atmosfera di questo pianeta: che non ci si azzardi a pensare che i krill dei quali si nutrono i fenicotteri rosa o le locuste della Cambogia (che, a quanto pare, diverranno a breve un alimento di larga diffusione anche in Europa) non abbiano pari diritti ad una esistenza degna ed esente dal pericolo dell’estinzione. Si dà valore assoluto a tutto. Tranne, evidentemente, che all’uomo. Ma non in generale, sia chiaro. L’uomo non ha valore se parliamo di un feto di poche settimane, se si tratta di chi agisce in dissenso a ciò che noi riteniamo giusto, se egli è realmente il nostro prossimo: l’essere umano più vicino a noi, che si trovi in stato di necessità, ma non appartenente a quelle categorie che “ci stanno simpatiche”. Non ha valore se è un disabile. No, non ne ha. Anzi, ne ha: ma solo nel momento in cui riusciamo a quantificare l’impatto che la sua vita “indegna di essere vissuta” ha sui bilanci degli Stati.
Qualche giorno fa lessi un articolo della giornalista Lucia Bellaspiga, intitolato “Eluana, dieci anni dopo”, nel quale l’autrice descriveva minuziosamente la sua esperienza con la famiglia Englaro, e in particolare con la povera Eluana, vittima in giovanissima età di un tremendo incidente che la rese non autosufficiente per il resto dei suoi giorni. Giorni che finirono tra atroci sofferenze: questo mai ci fu detto. Né ci fu raccontato che Eluana non era affatto il “tronco umano” (espressione tanto cara ad un tipo di narrazione televisiva in voga negli anni 80/90, ed io me lo ricordo benissimo) che ci veniva descritto, ma una persona il cui stato di coscienza che, seppur minima, le permetteva un livello di interazione che lasciava, a chi le si trovava vicino, coglierne l’essenza indifesa, priva di scudi verso il mondo esterno, bisognosa di un contatto che poteva essere una carezza od un bacio. Un’anima, insomma.
Al mio amico Giacomo (non bisogna conoscersi da una vita per potersi percepire amici), che ha condiviso su Twitter l’articolo della Bellaspiga, ho voluto comunicare il mio sdegno, la mia afflizione, le mie paure telefonandogli, dopo aver chiesto la sua disponibilità ad ascoltare il racconto di un uomo, padre di una bambina gravemente disabile, che intravede nella deriva inumana di questi tempi il ritorno ad un passato maledetto, segnato dalla pianificazione e dalla esecuzione di uno dei piani più infami e vergognosamente perpetrati ai danni degli ultimi: l’Aktion T4. Vedo preoccupante, all’orizzonte, un insano entusiasmo per il raggiungimento del referendum sulla legalizzazione dell’eutanasia.
Io non so se questo Paese debba essere messo in grado di abbracciare, nelle pieghe della sua burocrazia tentacolare e, spesso, inumana, l’idea di poter consentire ad una persona (o, peggio, ad una istituzione) diritto di vita o di morte. Siamo il Paese dei continui tagli al welfare, alle pensioni, il Paese dove un assistente sociale può sottrarre i figli ad un genitore apponendo una semplicissima firma, dove i tempi della magistratura, specie laddove viene richiesta immediatezza di giudizio a salvaguardia dei diritti fondamentali, sono pressoché biblici. Non vorrei che… Non so come scriverlo, ma ci proverò.
Venti di guerra (più propriamente di conflitto civile orizzontale) spirano tra la popolazione, in un momento di crisi sanitaria (diciamocelo, perlopiù indotta per negligenza o per dolo) che sta inducendo molti, troppi, a considerare di poter negare le cure mediche a chi ne abbia bisogno, utilizzando come metro per la concessione di un posto letto in ospedale la disponibilità dell’individuo stesso a sottoporsi a trattamenti preventivi di ancora non pienamente riscontrata efficacia.
Quanta distanza intercorre tra un ragionamento del genere (“non voglio pagare le cure ad un novax”) e la somministrazione del trattamento finale a chi vive una condizione di necessità continua di assistenza? In molti di voi crederanno che il salto logico sia troppo lungo, sconnesso, contorto, inapplicabile. Ebbene, sappiate che il filo che collega le due cose sia un argomento molto caro ai nostri governanti: il contenimento della spesa pubblica. La campagna vaccinale, tra le altre cose, appare sempre più una leva divisiva, a mano a mano che ci si pone il dubbio della sua reale portata dei benefici in termini di salute pubblica. È come un pomo della discordia gettato contro le masse al fine di suscitare dibattiti che prima d’ora non sarebbero venuti fuori nemmeno forzando all’infinito la narrazione relativa alla cosiddetta “dolce morte”.
L’arma ideologica possiede il potenziale distruttivo più grande tra tutti gli ordigni “puliti” ed è, al contempo, la più “sporca” in termini etici. Getti una granata di kilotoni di pressione massmediatica di entità praticamente incalcolabile, e stai a guardare l’esplosione delle menti plagiate che si gettano all’aggressione del nemico comune accuratamente confezionato dai migliori (peggiori, dipende dal punto di vista) “spin doctors”. Perfino nel Reich ebbero la delicatezza di farle di nascosto, certe cose: si mandavano alle camere a gas, tendenzialmente, i disabili completamente abbandonati dalle famiglie (leggere “Zavorre” del giornalista e scrittore tedesco Aly Gotz, per credere), gli altri, a volte, se la cavavano.
Oggi, invece, non si fa mistero di voler escludere dalla vita pubblica e possibilmente rimuovere dalla società quella minoranza, seppur rumorosa, seppur nutrita, di persone che non si sono allineate al pensiero comune (vuoi per diffidenza, vuoi per paura, vuoi perché diventa difficile non riuscire a vedere il marcio di questi ultimi 18 mesi). Non esagero usando il termine “rimuovere”, o facendo un accostamento alle eliminazioni fisiche del Reich.
Tutto comincia con “l’idea” dell’eliminazione, di qualunque natura essa sia. Chi è al potere ha gioco facile, d’altronde, quando si trova al cospetto l’uomo senza Dio, l’uomo di questi tempi disgraziati: egli sarà capace del peggio possibile, se riceve la giusta spinta emotiva, retorica, psicologica. Quanto ci metteranno a convincerci del fatto che non si potranno offrire cure a tutti, che la situazione sanitaria starà volgendo ad un punto di non sostenibilità, che presto si dovrà pensare a chi curare e chi no? E pensate che ci vorrà ancora tanto prima di far accettare alla maggioranza che tutto dovrà essere valutato in base alla produttività dell’individuo?
Siete ottimisti, se in disaccordo con la visione che vi sto sottoponendo. Lo siete per diversi motivi. Uno fra tutti. Quel continuo bombardare l’opinione pubblica col concetto della “protezione dei soggetti fragili” altro non è se non una espressione volta a generare senso di colpa nell’animo del destinatario del messaggio. Di fatto (e questo potete chiederlo ai diretti interessati, o ai loro congiunti) dei “soggetti fragili”, nel mondo reale, quello della lotta alla sopravvivenza quotidiana delle persone non autosufficienti e dei nuclei familiari che li assistono, non frega un beneamato cazzo a nessuno di coloro che si trovano ai piani alti.
E, per favore, risparmiatemi il pistolotto sul facile populismo: il sottoscritto lotta ogni giorno, tutti i giorni, con marmaglia di ogni tipo, o con quegli apparati capaci solo di lucrare sulla disperazione dei poveracci ed incapaci di portare anche un solo grammo di sollievo alle loro sofferenze. Inoltre, un genitore come lo siamo noi raccoglie un bagaglio di esperienza con strutture di ogni tipo: cooperative, assistenti sociali, onlus, enti previdenziali, strutture sanitarie… Ne avrei da raccontare per mesi, per così tanti anni che non ne basterebbero sei, quelli di mia figlia. Marta.
La mia Marta. La cui esistenza è iniziata praticamente da subito in salita, il cui corpicino dilaniato da convulsioni, crisi, infermità, paralisi, resta comunque aggrappato con tutta la sua forza a quella vita cui tutti, proprio tutti, abbiamo diritto. La vedo lottare nel silenzio del suo sonno spesso disturbato dagli spasmi, nei momenti di assenza da sveglia o nel suo modo di partecipare alle attività della scuola materna, circondata da tanti bambini che la amano, tra un gridolino per dire “io ci sono” ed una risata scomposta, mentre cerca di afferrare dalla sua piccola sedia a rotelle, con i movimenti delle sue braccia, incontrollati ed incontrollabili, tutto ciò che capita intorno a sé: l’aria, la testolina di una compagna di classe, un pupazzetto o un sonaglino che l’insegnante di sostegno le porge.
Non mi illudo. Mia figlia non sarà mai nulla di più di così, né riuscirà a disporre della propria vita in misura maggiore di quanto sia capace in questo momento. Ma è mia figlia. Creatura di Dio. Un mio pezzo. Un fiore raro da custodire al prezzo della mia stessa vita, se necessario. Per me, la sua esistenza è più che degna di essere vissuta: amarne ogni istante è il senso stesso della vita, credo. Fortemente credo. Posso solo sperare che la sua esistenza sia scevra il più possibile da sofferenza, e ricca quanto più di sorrisi e contatti col mondo che la circonda e che lei riesce a percepire appena. Tra lei ed il mondo ci sono io. C’è la mamma. Ci sono i suoi fratelli. Per me Marta non sarà mai una voce di spesa nel bilancio dello Stato italiano. Pretendo sia così anche per chi ci governa, ed esigo che nessuno si faccia venire strane idee intorno alla legge sull’eutanasia. Non abbiamo più tempo, dobbiamo fermare la macchina che si è messa in moto. Pietro Sannino
Le pressioni politiche e culturali perché anche in Italia venga approvata una legge su suicidio assistito ed eutanasia sono sempre più forti. Si ritrovano gli attori di un tempo: i Radicali e l’associazione Luca Coscioni. Si scopre però un elemento nuovo: l’assuefazione dell’opinione pubblica al favor mortis. Certo, l’informazione mainstream ha gravi responsabilità, basti pensare alla distorsione ideologica prodotta sui casi di Terri Schindler, Eluana Englaro, Charlie Gard, Alfie Evans e Vincent Lambert, ma oggi si raccolgono i frutti di un monumentale sforzo di spegnimento delle coscienze. Uno sforzo durato anni e caratterizzato da un martellamento mediatico e scolastico senza precedenti, in grado di schiacciare ogni complessità, ridurre ogni dibattito, delegittimare ogni voce estranea alla narrazione dominante. Grazie, caro Pietro, di essere qui a lanciare l’allarme. Sulle pagine virtuali di Notturno ci sarà sempre spazio per queste notizie, per queste storie, perché compito primario del giornalismo è raccontare la realtà, dando voce a chi altrimenti non avrebbe voce. Alla piccola Marta, arrivi la carezza di tutti i lettori. È vero: «non sarà mai nulla di più di così». Perché Marta è già tutto: unica e irripetibile, dono preziosissimo da amare, onorare, difendere. GB (Riproduzione riservata)
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