La Rai, Mosca e il giornalismo di guerra
Lazzaro Pappagallo, segretario di Stampa Romana, al convegno di Ossigeno per l’informazione: «Innaro e Paini non possono trasmettere notizie dalla Russia, decisione paradossale»
«Paradossale e incredibile». Non ha usato mezzi termini Lazzaro Pappagallo, giornalista, segretario di Stampa Romana, per commentare la decisione della Rai di non trasmettere più da Mosca. Pappagallo è intervenuto all’evento di Ossigeno per l’informazione “Roma ricorda Ilaria Alpi e le vittime innocenti della mafia”, che si è tenuto questa mattina a Roma, alla Casa del Jazz.
Riguardo la posizione della Rai, il segretario di Stampa Romana ha affermato: «C’è il paradosso di quanto sta accadendo a Mosca. Tu hai giornalisti che vogliono lavorare e non possono farlo per una decisione aziendale che poteva avere un vago senso due settimane fa. Adesso sono tornati tutti gli altri a trasmettere da Mosca e tu continui ad avere questo divieto, che a questo punto si spiega solo per ragioni politiche. La giornalista che ha mostrato il cartello dietro la conduttrice del telegiornale ha ricevuto un buffetto; Innaro e Paini, che non correrebbero affatto quel tipo di rischio, non possono mandare notizie da Mosca».
Sul tema Stampa Romana aveva subito preso posizione contro la decisione della tv di Stato italiana, una contrarietà espressa anche da UsigRai e da alcuni giornalisti come Antonella Napoli e Giacomo Bertoni. Nel contesto odierno la presenza dei giornalisti in Russia e in Ucraina è fondamentale, ha ricordato ancora Lazzaro Pappagallo: «Mai come in zone di guerra, e soprattutto in questa guerra, tu hai una teorica pluralità di fonti, perché i primi ad essere giornalisti sono coloro i quali sono vittime di assalti, di attentati, di missili. Basta un cellulare e possono filmare qualsiasi cosa. Questa enorme produzione, soprattutto di video, deve però essere filtrata, perché all’interno dell’enorme produzione di video c’è la disinformazione. Il primo moto d’indignazione popolare in questa guerra è stato il video di un carro armato che schiacciava una macchina: era un’immagine falsa. Cioè, il carro armato che schiacciava la macchina era vero, ma si riferiva a un altro episodio di guerra, non a questo conflitto. La prima immagine d’indignazione è un’immagine vomitata da internet ma falsa».
Oltre alle informazioni non verificate condivise sui social come se fossero notizie, vi è poi il problema della propaganda: «Da una parte hai la Russia dove se un collega russo attribuisce a quello che sta accadendo la parola “guerra” rischia il carcere fino ai 15 anni – ha messo in guardia Lazzaro Pappagallo –, ma dall’altra parte non è che abbiamo semplicemente una narrazione di santi. Ci doveva essere una guerra nucleare perché c’era stato un attentato nella centrale nucleare e non c’è stato nulla di tutto ciò, c’è stato un bombardamento su un ospedale psichiatrico dove c’era una strage e forse sono morte due persone, a Mariupol un teatro bombardato e non si sa se è morta una persona in quel teatro bombardato. Eppure l’escalation da un punto di vista emotivo è stata altissima».
Quale ruolo allora per i giornalisti in contesto di guerra? «Il ruolo dei giornalisti di fronte all’abbondanza di immagini e alla disinformazione che arriva dall’una e dall’altra parte è quello di farsi punto di verità perché testimoni – ha spiegato il segretario di Stampa Romana –. Stanno lì e dicono un morto, due morti, dieci morti, il missile aveva un impatto strategico oppure no, è stato un errore o un attacco di carattere militare». Lazzaro Pappagallo si è poi soffermato sulla situazione contrattuale dei giornalisti freelance, spesso inviati in guerra e sfruttati dai grandi gruppi editoriali senza ricevere protezione, equo compenso né un’assicurazione.
È dunque fondamentale un occhio neutro in questi conflitti, che possa riportare all’opinione pubblica internazionale la verità sostanziale dei fatti, senza la quale ogni analisi è priva di fondamento. Evitando l’ultimo pericolo, quello del giornalismo emotivo, perché il giornalista ha il dovere di guardare alla guerra con umanità e partecipazione civile, ma anche con un sereno distacco professionale, prendendo le distanze da ogni tifoseria: «Ci sono state scalette di telegiornali in cui si partiva dal profugo e si finiva al profugo. Io da addetto all’informazione vorrei capire dove stanno le truppe, dov’è il fronte, qual è il punto sul quale si sta combattendo. Spingere continuamente sul livello emotivo non consente la comprensione dei fatti». (Riproduzione riservata)
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