"Le ragnatele sulle nostre ali"
L’infodemia non è solo l’epidemia di notizie non verificate, ma l’incapacità diffusa di accettare informazioni che si discostano dalla narrazione dominante. Servono “Scarpe con suole di vento”
E se l’emergenza oggi fossero «le ragnatele sulle nostre ali»? Nel flusso ininterrotto di informazioni, comunicazioni, slogan e meme, diventano riconoscibili i lineamenti dell’infodemia. Si cercano informazioni, sempre più informazioni. Se ne consumano centinaia ogni giorno, dalle fonti più disparate, si sbirciano i titoli dallo smartphone in coda alla cassa del supermercato, si citano studi e ricerche prestigiose ma, come per il maleficio di una strega cattiva, il dibattito scompare per lasciare posto a un soliloquio nel quale «l’altro per noi è sempre uno straniero».
Gli ultimi due anni hanno frettolosamente acuito un fenomeno cardine della società individualista: l’autoreferenzialità. Si parla a qualcuno non per avere la sua risposta, ma per imporre un’opinione. Che spesso non è la propria, ma quella che la narrazione dominante ha trasmesso come unica verità ammissibile e degna di considerazione. Non può che tornare alla mente una canzone (da ascoltare in cuffia) di Anna Oxa, “Scarpe con suole di vento”, contenuta nell’album “Proxima” del 2010: fotografia in anticipo sul calendario della storia?
A inizio pandemia abbiamo tutti ingrossato e fatto il bagno nei fiumi d’inchiostro dedicati all’infodemia, segnalando (non senza cognizione di causa) il pericolo di una informazione senza controllo, fatta da non giornalisti, non verificata, non deontologica. Ma il dibattito ha coinvolto solo gli addetti ai lavori, dimenticando alcuni aspetti: la fiducia nella nostra professione ha subito nuove picconate dal 23 febbraio 2020 ad oggi, notizie non verificate e articoli copiati e incollati non sono apparsi solo su siti anonimi e blog, l’infodemia non è solo epidemia di fake news.
Uno dei volti dell’infodemia, che forse appare più chiaro oggi, è la ricerca di notizie che confermino la propria idea. È il rifiuto di informazioni che fuoriescano dai binari della narrazione dominante, la repulsione verso domande che possano in qualche modo minare il mantra scandito ogni giorno a una voce sui principali media. È, insomma, «vuoto che vieta libertà di pensiero».
La mente è ingannata, è convinta di essere incatenata a colonne di marmo, ma in realtà è plagiata, è spinta a manipolare anche la realtà fattuale in nome di un dogma. Solitamente basta poco per terremotare le colonne: un dubbio, una domanda, una replica, un dato, un sillogismo. Quando ciò accade, ecco che si attiva la strategia difensiva più prevedibile: rabbia, slogan ripetuti ossessivamente, insulti, denigrazione, censura. Non solo l’opinione diversa viene emarginata, ma anche le notizie, i fatti che smentiscono la narrazione dominante sono derubricati a “opinione personale”.
La libertà di espressione c’è, la voce fuori dal coro può esprimersi, a patto che venga presentata come pazza, comica, insignificante. A patto che venga isolata da parenti, amici, colleghi. Lo descrive Oriana Fallaci in “Il coraggio che ci serve. La forza della ragione”, Bur Rizzoli, Milano 2016 (pag. 377):
«Nei regimi inertemente democratici, tutto si può dire fuorché la verità. Tutto si può esprimere, tutto si può diffondere, fuorché il pensiero che denuncia la verità. Perché la verità mette con le spalle al muro. Fa paura. I più cedono alla paura e, per paura, intorno al pensiero che denuncia la verità tracciano un cerchio invalicabile. Un’invisibile ma insormontabile barriera all’interno della quale si può soltanto tacere o unirsi al coro».
Così, in questa bora di messaggi che non di rado fa vacillare, a perderci è il pensiero critico. Dunque, la libertà. Conservare il pensiero critico non significa attribuirsi professionalità altrui (ad esempio impugnare un bisturi e operare se non si è chirurghi), bensì attivare la sospensione del giudizio di fronte allo tsunami di parole che ogni giorno travolge. Con un campanello d’allarme (per il quale devo ringraziare la mia docente di lettere del liceo): quando tutte le campane suonano la stessa nota, vale la pena fare una revisione urgente al proprio pensiero critico.
Citando ancora Oxa, stavolta dall’album “La mia corsa” del 1984, quando l’invito è per «una festa orribile, fiori finti finta gioventù», si può dire “no”. Anche se tutti dicono “sì”. Anche se si è giovani e l’accettazione degli amici e dei compagni di classe è un’esigenza insopprimibile. Per tutti c’è una «Gioconda senza volto, il naso là nel cielo» da riscoprire, ma occorre indossare «scarpe con suole di vento» per liberarsi dal peso della propaganda. Che rassicura ma inchioda a terra.
Se l’emergenza oggi fosse una schiavitù camuffata, che suona al campanello con mirabolanti promesse, sarebbe il momento giusto per alzare la musica, aprire un libro, piantare un fiore. «Non scendo, vacci tu». (Riproduzione riservata)
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