Pandemia e disinformazione – Parte 5
L’analisi di Martina Pastorelli: «Sotto la cappa un'altra informazione è possibile o siamo condannati a fare da grancassa al potere? Da giornalista penso sia dovere etico prima che professionale»
Fare informazione in tempo di propaganda è «un dovere etico, prima ancora che professionale». Ma come si può dare notizie quando il dibattito pubblico è invaso dagli slogan? Negli ultimi due anni, grazie a paura e conflitto orizzontale, sono stati costruiti tanti muri invisibili fra le persone, come altissimi pannelli di plexiglass, semitrasparenti e morbidi: consentono di vedersi ma sfumano i lineamenti, consentono di sentirsi ma distorcono il suono, consentono di avvicinarsi ma non di toccarsi. Come rompere questo grigiore ovattato?
Martina Pastorelli, giornalista, spiega: «Nella propaganda di massa la narrativa soddisfa i bisogni psicologici delle persone. Nella nostra società c’è un problema di solitudine esistenziale, di insoddisfazione, di depressione, il tutto non aiutato dalla digitalizzazione, così le persone provano appagamento nel far parte di un gruppo che ha uno scopo». In questo clima, la metafora della guerra ha saputo creare un’unione apparente fra le persone: nella prima parte dell’emergenza il mondo intero era in lotta contro un virus, poi la guerra è diventata quella fra vaccinati e non vaccinati. Eppure esiste ancora la possibilità di fare giornalismo, una strada percorribile la indica Martina Pastorelli nella quinta pillola video di “Pandemia e disinformazione”. (Riproduzione riservata)
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