Tornare a riconoscersi
Dopo due anni di paura e conflitto orizzontale, il dibattito pubblico è disseminato di etichette ideologiche. I volti sono coperti, le voci silenziate: l’emergenza più grave oggi è la disumanizzazione
E se fosse solo una questione di sguardi? Se tutti gli slogan, le manifestazioni, le canzoni, le conferenze e le pubblicità inclusive in realtà non servissero a nulla? “Empatia” costringe il visitatore ad andare oltre i ritornelli rassicuranti per arrivare alle origini, alle basi della relazione: il riconoscimento di una parte di sé nel volto dell’altro. Emmanuel Lévinas, filosofo francese scomparso il 25 dicembre del 1995, scriveva: «Noi chiamiamo volto il modo con cui si presenta l’Altro. Questo modo non consiste nell’assumere, di fronte al mio sguardo, la figura di un tema, nel mostrarsi come un insieme di qualità che formano un’immagine. Il volto dell’Altro distrugge ad ogni istante e oltrepassa l’immagine plastica che mi lascia. […] La vera natura del volto, il suo segreto, sta altrove: nella domanda che mi rivolge, domanda che è al contempo una richiesta di aiuto e una minaccia». L’incontro è un’esperienza meravigliosa e drammatica, perché mentre calma il senso di solitudine mette in crisi le certezze precostituite. Non esiste infatti incontro degno di questo nome senza abbracci, spintoni, graffi o carezze. Senza che l’animo rimanga agitato anche quando il volto dell’altro non è più in vista.
“Empatia” allora non è solo attuale, ma impellente, perché in questi due anni l’incontro è stato il vero, grande assente dalle nostre vite quotidiane. L’altro non è più una domanda stupenda e drammatica, ma un’etichetta da incasellare con precisione attraverso schemi ideologici narrati dall’alto. Non c’è il contatto, non ci sono le mani che pulsano nelle nostre, non ci sono quelle sottili altalene nel respiro che solo stando vicini si possono cogliere nell’interlocutore, non ci sono i profumi, siano essi fragranze pregiate o tracce di quotidianità, non ci sono i sorrisi e le smorfie. Non ci sono più tutti gli elementi che distinguevano l’incontro in presenza dal collegamento video. C’è solo un volto distante e coperto dalla mascherina. Con il freddo, poi, solo gli occhi rimangono accessibili, ma li sappiamo ancora scandagliare?
Quante etichette hanno invaso abusivamente il dibattito pubblico durante lockdown e zone colorate: la mente ne è uscita distrutta, il cuore spaventato e stanco. Quale terreno migliore per la crescita del razzismo? Così, l’incontro diventa solo un incubo. Così, l’altro diventa solo un demolitore di sicurezze fragilissime. Oltre il diverso colore della pelle, oltre la diversa lingua, oltre la diversa cultura, questo clima trasforma il bosco dell’incontro nella giungla notturna, dove i passi sono incerti e i predatori pronti ad attaccare. Le conferenze, le canzoni e le pubblicità inclusive hanno insegnato forzatamente a non giudicare il colore della pelle, sulla base di un buonismo che cancella le differenze per appiattire ogni identità, ma due anni di terrore hanno diffuso il sospetto automatico verso il prossimo, verso qualsiasi prossimo, possibile portatore di virus o, ancora peggio, di idee diverse dalle proprie. Un solo pensiero è possibile, una sola routine è sicura, pertanto anche la solidarietà nei confronti di chi soffre e fugge da guerre e carestie rischia di diventare un rito da assolvere per conformismo. Non un incontro, che può comportare carezze o graffi, ma una coreografia nella quale ogni movimento è prevedibile e limitato.
No, non c’è il pericolo di scivolare verso un mondo di apparenze borghesi già denunciato da Svevo e Pirandello, c’è la certezza di precipitare in un mondo disumano. Un uomo che non incontra non è più un uomo ma una pedina grigia, manipolabile, indistinguibile, sostituibile. Il 25 marzo 1995 San Giovanni Paolo II fotografò i pericoli della disumanizzazione nell’enciclica “Evangelium Vitae”, dalla quale oggi più che mai risuona un campanello d’allarme: se non si custodisce più l’umano, dunque se non si tutela la dignità della vita umana dal concepimento fino alla morte naturale, qualsiasi altro diritto decade. Qualsiasi altra pretesa di solidarietà, di inclusione, di pace, di rispetto dei diritti degli animali e dell’ambiente diventa banderuola ideologica del pensiero dominante se non ha fondamenta nella custodia dell’umano.
Incontrare l’altro significa riscoprirsi umani, ed è profondamente umano desiderare di custodire l’umano. Il cuore dell’uomo infatti non è fatto per l’usa e getta, è geneticamente allergico all’orrore e batte impazzito di fronte alle vite calpestate. Non è un caso che per giustificare le più atroci aberrazioni che hanno segnato la storia sia stato necessario avviare una immensa macchina della propaganda, in grado di spegnere ogni pensiero critico e di silenziare ogni coscienza. Le intimidazioni violente sono arrivate dopo, quando ormai ben pochi si rendevano conto del Male. Così, non c’è solidarietà senza incontro. Non c’è incontro senza l’impegno a custodire l’umano. “Empatia” racconta una verità così semplice, così fondamentale che se non viene ricordata spesso rischia di essere data per scontata e dimenticata: tornare a riconoscersi è l’impegno più urgente da assumere. Non c’è speranza di pace, altrimenti. E non c’è più tempo da perdere. (Riproduzione riservata)
Questo testo è il contributo scritto da Giacomo Bertoni per “Empatia”, la pubblicazione curata da A.L.E.R.A.MO. Onlus per l’omonima mostra, visitabile al Museo civico di Moncalvo fino al 25 aprile 2022. La pubblicazione, a cura di Giancarlo Boglietti, è acquistabile presso il museo. Per ulteriori info è possibile scrivere a info@aleramonlus.it.
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