Un nuovo mondo, quale?
1994-2021: dalla Conferenza del Cairo al post pandemia, il filo rosso è l'esclusione della sfera religiosa dal dibattito pubblico. "Non è reazionario opporsi"
Il 2020 è stato un anno sospeso e al contempo frenetico. Il lockdown ha fermato le persone, ne ha cristallizzato la routine, ma dalle finestre delle case si è osservato un fenomeno inedito: il tempo ha iniziato a scorrere più veloce che mai. Oggi, sedici mesi dopo lo scoppio della pandemia, nulla è più come prima. Lo sconvolgimento sanitario, economico e sociale di questo tempo ha ridotto in polvere le macerie valoriali di un’Europa confusa, distratta, arricciata su se stessa con il narcisismo tipico dell’uomo contemporaneo, un narcisismo globalizzato e senza confini.
Le parole più comuni hanno nuovi significati e rimandano a nuovi concetti: sano, positivo, chiusura, assembramento, distanziamento. Il concetto stesso di fragilità è mutato, e oggi oscilla come un pendolo tra paranoia e ipocrisia. In crisi, prima di ogni attività e istituzione, c’è l’umano. Depredato della sua dignità intrinseca, ma elevato a onnipotente consumatore digitale. E la vera domanda, il vero fuoco verso il quale ogni attenzione dovrebbe concentrarsi, è la stessa di ogni grande frattura d’epoca: chi custodirà l’umano?
La storia, si sa, è ciclica, sempre si ripete, negli orrori e nelle meraviglie, così è prezioso fare qualche passo indietro per rileggere pagine di storia recente che narrano simili stravolgimenti. È il 10 settembre del 1994, il mondo cammina verso la Conferenza del Cairo su “Popolazione e sviluppo”, che chiama attorno a un tavolo 179 Paesi per discutere di istruzione, salute riproduttiva, parità fra uomini e donne, aborto e pianificazione familiare. Monsignor Francisco Javier Martínez Fernández, vescovo ausiliario di Madrid, si trova nella cattedrale madrilena dell’Almudena e pronuncia una lunga omelia, nella quale difende la posizione della Santa Sede, unica voce dissonante alla Conferenza rispetto a un’idea di futuro caratterizzata da individualismo, consumismo, aborto ed eutanasia per i soggetti più fragili. Afferma monsignor Martinez:
«Quando il bene della persona non sta al centro di tutta la vita politica e sociale, i valori morali diventano funzionali a mire di potere, a ideologie di potenza, a concezioni nazionaliste esacerbate, agli interessi dei potenti e ai programmi che, anche se in molti casi difendono beni parziali, sono in realtà distruttori dell’uomo. Gli interessi politici ed economici in gioco sono così numerosi che non ci deve stupire il fatto che la posizione della Santa Sede sia stata così fraintesa e così mal presentata, e che questa posizione abbia poi suscitato tante e così forti reazioni contrarie».
L’obiettivo della comunicazione mainstream del tempo, sembra dire il vescovo, è la censura della voce della Chiesa, perché la religione è un ostacolo al progresso. Un elemento che non può lasciare indifferenti gli osservatori più attenti: la strategia dei Paesi che contano non è il confronto diretto con la Santa Sede, il dibattito pubblico che coinvolge i cittadini, ma il derubricare le preoccupazioni del papa, al tempo Giovanni Paolo II, e dei vescovi a una posizione reazionaria, oscurantista, pericolosa. L’esclusione della sfera religiosa è il vero pericolo, continua monsignor Martinez:
«Perché il religioso coincide così assolutamente con l’umano, che un mondo, il quale nella sua organizzazione sociale prescinda dalla verità della religione, si muta inevitabilmente in un mondo inumano».
I temi che dominavano il dibattito nel 1994 sono sorprendentemente vicini a quelli odierni: quali cure per i soggetti più fragili? Il bambino non ancora nato è a tutti gli effetti il soggetto più fragile che esista? Quale spazio per anziani, malati, persone con disabilità, emarginati?
«Non è reazionario sostenere che le decisioni politiche ed economiche relative allo sviluppo della popolazione devono tener presenti alcuni valori morali il cui centro è la persona umana. Non è reazionario sostenere che ogni vita umana è sacra, indipendentemente dall’età, dal sesso, dalla nazionalità, dalla religione o dalla razza, sin dal momento stesso del suo concepimento e fino alla sua morte naturale. Non è reazionario affermare che i diritti umani fondamentali sono innati e vengono prima dello Stato o di qualsiasi altro ordine legale, nazionale o internazionale. Non è reazionario difendere la famiglia di fronte a una concezione della sessualità individualista ed edonista che sta già distruggendo le società occidentali. E non è reazionario opporsi all’aborto e alla sterilizzazione, anche se vengono mascherati con eufemismi sul tipo di quel concetto ambiguo che è l’idea di “salute riproduttiva”».
Attualizzando, ma solo negli esempi, l’omelia di monsignor Martinez, si potrebbe aggiungere: non è reazionario pretendere lo sviluppo di vaccini etici, che non utilizzino linee cellulari derivanti da feti abortiti. Non è reazionario pretendere che il medico metta sempre al centro la persona, non la sua patologia. Che non smetta mai di prendersi cura del malato, anche quando si rende conto che non lo potrà guarire. Che la vita umana ha sempre lo stesso valore: nel silenzio che precede la nascita, nel pieno di una carriera brillante, nel dolore della malattia, nel lento cammino della vecchiaia. Questi principi, secondo il vescovo ausiliario di Madrid, sono:
«l’unica garanzia che possa essere data al mondo di una coesistenza giusta e pacifica, e l’unica difesa contro la minaccia delle tirannie e dell’oppressione dei potenti, quali che siano le forme che questa minaccia assume».
Tanto si cita e tanto poco si comprende il motore che spinge per un nuovo umanesimo cristiano. L’utopia, forse, di rimettere al centro della società l’uomo, non come misura di tutte le cose, bensì come ponte fra Cielo e Terra. La convinzione che se si mettesse al centro di ogni decisione politica il rispetto della sacralità della vita, ne gioverebbe ogni campo del reale. Avanzerebbe la medicina, a servizio dell’uomo e non delle case farmaceutiche, il mondo del lavoro, come attività per costruire il quotidiano nel bene comune, le relazioni, liberate dagli interessi particolari e orientate verso la conoscenza dell’altro.
L’omelia di monsignor Martinez è contenuta nel numero di novembre-dicembre 1994 de “La Nuova Europa”, rivista internazionale di cultura, il cui editoriale di apertura vale la pena riprendere qui su “Notturno”, almeno in parte:
«Venditori di parole che smerciano i fumi nefasti dell’utopismo sono destinati ad essere tutti coloro che diffondono opinioni senza la forza di confrontarle non con la logica ma con la verità che è nel cuore dell’uomo e sovrasta ogni cosa. La devastazione della persona che non ha più riferimenti e si libra nel vuoto è stata preparata simultaneamente, per vie diverse sia all’Est come all’Ovest. La disumanizzazione porta alla decadenza dell’energia creativa della cultura e della socialità».
Va spiegato così il grigiore che caratterizza il dibattito pubblico contemporaneo? Una uniformità che è presagio, neanche troppo discreto, di un nuovo pensiero unico? Il giornalismo non può fuggire il tema, e non può per la sua natura di osservatorio della realtà. Non può, inoltre, perché la deontologia stessa del giornalista impone domande continue, dubbi assillanti e verifiche ripetute. Non bisogna temere le domande, semmai esigere risposte degne di questo nome. Con una consapevolezza, drammatica e insieme speranzosa, stampata con l’inchiostro sulle pagine di questa rivista quasi 30 anni fa:
«Sarebbe errato cercare la causa di tutto questo unicamente nel sistema. Ogni persona porta la sua responsabilità. Se non fosse così non ci sarebbe speranza. Non occorre sostenere apertamente un sistema iniquo per essere responsabili; anche l’abolizione della propria libertà è funzionale al sistema».
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