Vaccino anti covid ai bambini? Cresce il fronte del “no”
FDA ha autorizzato Pfizer per l’uso di emergenza ai bambini nella fascia 5-11 anni. Le testate giornalistiche italiane rilanciano l’urgenza dell’immunizzazione. Ma i dati raccontano un’altra storia
La Food and Drug Administration ha autorizzato per l’uso di emergenza il vaccino COVID-19 di Pfizer per i bambini dai 5 agli 11 anni, con un terzo della dose prevista per adolescenti e adulti. La notizia è arrivata in Italia con i primi lanci d’agenzia alle 21.35 di venerdì 29 ottobre 2021. Il giorno precedente Matteo Bassetti, direttore della Clinica di Malattie infettive del Policlinico San Martino di Genova, dichiarava all'Adnkronos Salute: «Il vaccino nella fascia 5-11 anni ci permetterà di mettere in sicurezza le scuole elementari e una parte delle medie. La variante Delta può colpire in modo diffuso e non possiamo dire con certezza che non si infetteranno anche i bambini». Oggi Il Post ricorda: «Secondo lo studio clinico, nelle fasi 2 e 3 (su 3), il vaccino era risultato “sicuro e ben tollerato” nei bambini tra i 5 e gli 11 anni, e aveva prodotto in loro una risposta immunitaria “sostenuta”, non inferiore a quella dei vaccinati con più di 12 anni».
Margherita De Bac per il Corriere della Sera intervista oggi Stefania Dalmaso, epidemiologa, che afferma: «Dopo l’inizio dell’anno scolastico ci si aspettava una crescita di nuove infezioni tra i giovanissimi, per il semplice effetto dell’aggregazione in classe e delle maggiori opportunità di contagio. Invece tale effetto non si è verificato e ancora oggi nella letteratura scientifica ci sono indicazioni convincenti che la scuola di per sé non rappresenti un rischio aumentato. Gli under 12 non sono vaccinati e quindi la pandemia continua a circolare tra loro e gli adulti non immunizzati».
Ovvero: il ritorno a scuola non ha comportato alcun boom dei contagi e i bambini non corrono il rischio di sviluppare la malattia con sintomi gravi (dati Iss). Eppure, lo si legge nella stessa frase, la pandemia continua a circolare tra bambini e adulti non immunizzati. Com’è possibile che né la collega che ha realizzato l’intervista né il caposervizio che l’ha riletta né il direttore che l’ha approvata abbiano rilevato questa contraddizione? Inoltre, se i bambini al massimo diventano positivi e sviluppano l’immunità naturale, restando così al sicuro dal virus, perché devono essere vaccinati?
Perché si utilizza il termine “immunizzati” nonostante sia ormai dimostrato che i vaccini attualmente in commercio non impediscono il contagio bensì limitano i sintomi gravi in chi si contagia? Ancora, riguardo la protezione offerta dai vaccini, quanto dura? Secondo il Governo la durata della protezione è di 12 mesi. Secondo alcuni esperti dipenderebbe anche dal vaccino, ad esempio il Johnson&Johnson offrirebbe una protezione valida solo per due mesi. I dati che provengono da Inghilterra e Israele parlano di una copertura che cala dopo quattro mesi, mentre si rincorrono anche in Italia le storie di persone “immunizzate” eppure contagiate anche con sintomi gravi. Perché le principali testate giornalistiche rinunciano a porre queste domande?
Il dibattito in America, già molto acceso riguardo i problemi etici dei vaccini, torna a infiammare l’opinione pubblica. LifeSiteNews oggi scrive: «Un team di ricercatori della Johns Hopkins School of Medicine "ha analizzato circa 48.000 bambini sotto i 18 anni con diagnosi di Covid nei dati dell'assicurazione sanitaria da aprile ad agosto 2020" e ha trovato un "tasso di mortalità pari a zero tra i bambini senza condizioni mediche preesistenti come la leucemia”. Il ricercatore capo, il dottor Marty Makary, ha accusato il CDC di basare la sua difesa della vaccinazione contro il COVID nelle scuole su "dati fragili"».
The Federalist, già nel maggio 2020, scriveva: «I bambini contraggono prevalentemente infezioni COVID-19 asintomatiche o lievi e studi recenti suggeriscono che potrebbero avere un'immunità innata o un'immunità parziale efficace dalla recente esposizione ai comuni coronavirus del raffreddore».
In Islanda, il Science Museum Group intervistando Kari Stefansson, scrive: «I bambini sotto i 10 anni hanno meno probabilità di contrarre l'infezione rispetto agli adulti e, se si infettano, hanno meno probabilità di ammalarsi gravemente. Ciò che è interessante è che anche se i bambini vengono infettati, hanno meno probabilità di trasmettere la malattia ad altri rispetto agli adulti. Non abbiamo trovato un solo caso di un bambino che ha infettato i genitori». Studi simili sono stati fatti, con i medesimi risultati, nella maggior parte dei Paesi. In tutti è possibile ritrovare lo stesso dato: a rischio ci sono le persone anziane, le persone fragili che già combattono con altre patologie. I bambini non sono in pericolo.
In Italia l’Istituto superiore di sanità scrive: «L’età media dei pazienti deceduti e positivi a SARS-CoV-2 è 80 anni (mediana 82, range 0-109, Range InterQuartile-IQR (1° quartile=74; 3° quartile=88)). Le donne decedute sono 56.792 (43,5%). L’età mediana dei pazienti deceduti positivi a SARS-CoV-2 è più alta di oltre 35 anni rispetto a quella dei pazienti che hanno contratto l’infezione (pazienti deceduti: età mediane 82 anni; pazienti con infezione: età mediana 45 anni)».
E ancora: «Al 5 ottobre 2021 sono 1.601, dei 130.468 (1,2%), i pazienti deceduti SARS-CoV-2 positivi di età inferiore ai 50 anni. In particolare, 399 di questi avevano meno di 40 anni (245 uomini e 154 donne con età compresa tra 0 e 39 anni)».
E infine, riguardo un campione selezionato per valutare l’incidenza delle patologie pregresse sul decorso della malattia, si legge: «Complessivamente, 230 pazienti (2,9% del campione) presentavano 0 patologie, 902 (11,4%) presentavano 1 patologia, 1.424 (18,0%) presentavano 2 patologie e 5.354 (67,7%) presentavano 3 o più patologie». (Riproduzione riservata)
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