“L’incubo ebbe così inizio”
Paolo Maurensig, Milva e Walter Mramor: penna, cuori e voci in “La variante di Lüneburg”, inno all’umano contro ogni dittatura
«Narra una leggenda che quando il gioco degli scacchi fu presentato per la prima volta a corte il sultano volle premiare l’oscuro inventore esaudendo ogni suo desiderio. Questi chiese per sé un compenso apparentemente modesto, di avere cioè tanto grano quanto poteva risultare da una semplice addizione: un chicco sulla prima delle sessantaquattro caselle, due chicchi sulla seconda, quattro sulla terza, e così via…»
Era il 1993 quando “La variante di Lüneburg”, dello scrittore Paolo Maurensig, arrivava nelle librerie italiane. Un romanzo avvincente e complesso, per il quale l’autore non volle mai neanche immaginare una trasposizione cinematografica. È il 2006 quando un ambizioso progetto di a.ArtistiAssociati, impresa di produzione teatrale di Gorizia, viene proposto all’autore: trasformare il romanzo in una fabula in musica. Da narrare e cantare attraverso le voci di Milva e Walter Mramor.
Così ricorda quel momento Maurensig: «Avevo sempre guardato con sospetto a ogni proposta di trasformare i miei romanzi in lavori teatrali, con o senza musica. Se qualcuno si sentiva di impegnarsi in una simile operazione lo facesse pure, ma senza contare sulla mia collaborazione». Maurensig era preoccupato dai limiti di una riduzione teatrale, temeva che la storia presente nel romanzo ne potesse uscire lacerata. Fino al progetto a.ArtistiAssociati: «Eppure, è stata proprio la possibilità di far uso di una essenzialità portata agli estremi che mi ha convinto. Estrapolare un testo essenziale e scrivere le parole per le canzoni di Milva mi hanno rinnovato l’emozione provata a suo tempo nello scrivere il romanzo».
Il debutto della fabula in musica si ha nel 2007, a Gorizia, città natale di Paolo Maurensig, e da lì inizia una lunga tournée che Milva porterà avanti fino al 1° aprile 2011, al teatro Arena del Sole di Bologna. Ultima replica de La variante di Lüneburg, ultima esibizione italiana di Milva prima del definitivo ritiro dalle scene. Oggi Paolo Maurensig e Milva non sono più tra noi, così il ricordo non può che mescolarsi fra le pagine del romanzo e i testi della fabula in musica. La penna, le note, le voci, il fruscio del sipario: tutto concorre al racconto di una storia senza tempo, che attraverso la metafora del gioco degli scacchi fa luce sull’orrore dell’Olocausto.
«L’incubo ebbe così inizio; un incubo sognato in piena consapevolezza, ma tuttavia, proprio come un sogno, situato al di fuori della portata di ogni nostro tentativo di interromperlo, o anche soltanto di modificarlo. Da un giorno all’altro fummo spogliati di quel poco che ci restava ancora della nostra dignità, fummo privati di ogni attributo umano. Benché parlassimo la loro stessa lingua ed esprimessimo i medesimi concetti, nati da uguali sentimenti e bisogni, questa presunta uguaglianza non c’era perché gli altri ci avevano ridotti al rango di animali da soma e da macello. Ancora oggi mi chiedo a volte – ed è alla loro salvezza che penso –, se quanti parteciparono con tanto zelo a questo compito infame udissero levarsi dalle nostre file voci umane, o se, grazie a chissà quali malefici operati sul loro cervello dalla propaganda dei gerarchi, non percepissero soltanto belati e muggiti».
L’inferno era riuscito a rompere la crosta terrestre e aveva mostrato parte del proprio volto. Un volto violento, come i calci dei fucili sbattuti sui volti inermi dei prigionieri, e un volto cinico, come la banalità del male dei funzionari, dei lavoratori che hanno svolto i loro compiti ogni giorno, portando a fine mese a casa un pane che grondava sangue innocente. Da qui il grido di sgomento e speranza che questa storia regala al lettore da quasi trent’anni: la storia è ciclica, il male più assoluto cerca sempre un pertugio nelle pieghe del reale per tornare nel mondo. Ma lo fa ogni volta con una maschera diversa, per questo è tanto difficile riconoscerlo. Per questo le parole hanno tanto peso, per questo occorre vegliare come sentinelle, per questo le luci che si vedono all’orizzonte richiedono discernimento: sono presagio dell’alba o fiaccole delle truppe nemiche?
«Come animali fummo radunati e spinti e tenuti al passo con il bastone, e infine stipati su un carro bestiame. E i portelloni si richiusero, lasciandoci al buio, senz’aria né cibo né acqua. Per il tempo di un interminabile viaggio. Treno, treno che corri nella notte, quante anime trasporti in petto? Enormi le tue ruote, come macine del Vangelo, che mai basteranno ad affogare le colpe, rotolano lungo uno stretto sentiero. Pancia arroventata e un solo occhio di fuoco, spingi il tuo carico di anime. Treno che corri nella notte, quante anime trasporti in petto? Caronte di ferro, conosco la fine della strada, conosco il fondo della via. La tua lanterna cieca fora la caligine della notte, la tua lanterna non è quella dei bimbi, che proietta ombre sul muro, quelle che trasporti sono già ombre di morte. Treno, che muovi le tue ruote con clave di ferro, treno, che con il tuo urlo copri ogni pianto, treno, che strangoli la notte con le tue catene di ferro, dove sono i volti dell’amore? Dove sono le risa e i sussurri nella penombra d’estate?».
Oggi il male di quel tempo appare evidente, viene voglia di urlarlo alle pagine del libro, viene voglia di entrare nella storia e mettersi fisicamente accanto a questa famiglia spezzata dopo un interminabile viaggio. La separazione è uno strazio, violento e disumano: come accettarla? Ma la tragedia della storia è che ciò non può accadere. Non si può entrare a pagina 127 e bloccare il soldato che sta per colpire l’anziano padre, non si può asciugare le lacrime della madre che scuote la mano come ultimo saluto. Anzi, la tragedia della storia è che non è dato sapere che ruolo avremmo avuto. Noi vittime o carnefici?
Perché i crimini contro l’umanità compiuti nei campi di concentramento nazisti e nei gulag sovietici non possono essere attribuiti solamente ai dittatori e a pochi gerarchi. Neppure ai soldati, che accettavano la banalità del male in cambio di uno stipendio sicuro a fine mese. Quanti semplici cittadini hanno chiuso gli occhi davanti alle prime ingiustizie, quanti semplici cittadini hanno taciuto davanti ai primi rastrellamenti. C’è la banalità del male, c’è la speranza di un quieto vivere, l’inganno di una pace che nasconde la violenza, la scommessa di trovare ristoro nonostante la coscienza si palesi con incubi e tachicardie. Il potere della propaganda, prima vera forza di ogni dittatura, mira a gettare i primi semi di disumanità fra le persone. I campi di lavoro con le camere a gas non nascono come un fungo sotto la pioggia, sono il risultato di mesi di ostinata negazione della realtà in nome di una ideologia.
«Con il tempo anche questa forza motrice che conoscevamo sotto il nome di dolore si ridusse: solo diventando insensibili, infatti, potevamo sperare ancora di mantenerci in vita; così, a un certo punto, il dolore smise di crescere, come l’acqua di un invaso che abbia raggiunto l’apertura di sfogo e il cui livello, benché alla fonte essa continui a sgorgare con veemenza, rimanga comunque identico. Anche i sentimenti di cui un tempo andavamo fieri e che credevamo possedere in abbondanza si erano ridotti a ben poca cosa. Ciò che a volte mi stupiva era che l’odio stesso si fosse esaurito».
Pare incredibile, insensato, umanamente illogico, eppure in questa realtà qualcuno dice “no”. È, in primis, «il cuore di madre», che conserva il sorriso del bimbo persino sotto i colpi dei fucili. È l’amore, infuso nelle scelte di migliaia di uomini e donne che di fronte al bivio fra ciò che era giusto e ciò che era facile scelsero la giustizia. Da un funzionario che si rifiuta di eseguire un ordine, gesto terribile per il suo futuro ma misero nella vastità dell’orrore, si sprigiona una «luce suprema che a confronto ogni lume è tenebra». La luce di un cuore capace di rimanere umano anche sulla bocca dell’inferno.
Come si può non avere paura? Quando tutto intorno è grigio, uscire dai binari tracciati dal potere significa perdere anche quel piccolo orticello grigio, concesso dall’alto come premio a chi esegue gli ordini. Ma la libertà non può valere una concessione, un premio, un avanzamento di carriera. Altrimenti nulla ha più senso. La variante di Lüneburg allora diventa una mossa che tutti possono fare sulla scacchiera della vita: mettersi di traverso di fronte all’avanzata di ogni nuova dittatura. Scacco matto, per la libertà.
«E ancora la notte trattiene il respiro, in una prolungata apnea. Ma non per molto ancora, che già il sole del suo cappello di feltro leva la tesa nera». (Riproduzione riservata)
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