Eutanasia, un dibattito sporcato dall’odio
Insulti e auguri di malattie inguaribili per un tweet sull’inviolabilità della vita. Eppure la questione è semplice: nessuno può arrogarsi il diritto di stabilire se una vita è degna di essere vissuta
«Vorrei vedere te dilaniato dai dolori di un tumore o paralizzato da una malattia dove comunichi con gli occhi tramite un computer, poi mi sapresti dire della inviolabilità della vita.. ma fammi il piacere». Questo è solo uno dei tanti commenti ricevuti su Twitter nelle ultime ore: decine di utenti hanno deciso di rispondere a un tweet sull’eutanasia con auguri di malattie inguaribili e insulti. Al di là di questi messaggi, che trasudano un odio inquietante ma non meritevole di attenzione, la frase pubblicata ha suscitato anche un dibattito (a volte acceso, a volte feroce) nel merito della questione, pertanto ho deciso di ampliarla con un articolo (è anche un dovere deontologico, dato che: «Il giornalista difende il diritto all’informazione e la libertà di opinione di ogni persona», come impone il nostro Testo unico dei doveri).
Il tweet in questione, pubblicato il 10 settembre 2022, recita: «No, l'eutanasia non regala alcuna nuova libertà all'uomo, non concede alcun nuovo diritto al cittadino. Abbatte invece la sua ultima difesa: l'inviolabilità della vita. Se lo Stato inizia ad agire in favor mortis, nessuno è più al sicuro». È nato a fronte del crescente dibattito elettorale sui temi etici, per ribadire una prospettiva che rimane costantemente esclusa dalla narrazione dominante: l’inviolabilità della vita umana.
Ma partiamo dalle basi: con eutanasia si intende l’azione o l’omissione del medico che provoca la “dolce morte” del paziente. L’azione (eutanasia attiva) può essere la somministrazione di un farmaco letale, l’omissione (eutanasia passiva) può essere il non offrire un supporto in quel momento vitale. La morte viene causata intenzionalmente dal medico a un soggetto consenziente, che ha espresso l’esplicita volontà di morire. Perché opporsi alla legalizzazione di questa pratica che, come scrivono in queste ore molti utenti, garantirebbe la libertà e la dignità ai malati terminali?
Il “sì” alla vita, che comporta inevitabilmente un secco “no” alle tante pratiche che ne prevedono la manipolazione e la soppressione, nasce dal riconoscimento dell’inviolabilità della vita umana, cioè dal fatto che la vita è un dono del quale l’uomo non può disporre. Non spetta all’uomo decidere quando porre fine alla vita, né a quella altrui né alla propria. Lo Stato agisce dunque in favor vitae, cercando cioè di difendere, promuovere e salvare la vita. Ed è quello che anche i comuni cittadini fanno per istinto naturale: quando vedono una persona che tenta di buttarsi da un ponte la implorano di fermarsi, non le danno una spinta, quando vedono un grave incidente automobilistico accorrono e chiamano aiuto, quando vedono un bambino solo si guardano attorno chiamando i genitori, quando vedono un anziano che fatica a camminare gli offrono il braccio, e via dicendo. È profondamente umano desiderare di custodire l’umano. È l’istinto più naturalmente umano quello che porta a sommergere l’abbondanza del dolore con la sovrabbondanza dell’amore.
Nel frangente delicatissimo della sofferenza, in modo particolare in caso di malattie inguaribili, il “sì” alla vita pone sentinelle accanto al malato: lo Stato non può decidere di agire in favor mortis. Lo Stato, dunque, non può mai decidere quando una vita è degna di essere vissuta, non può arrogarsi il diritto di stabilire quale vita vale e quale no. Così il medico, braccio dello Stato, non può provocare la morte neanche se il paziente, colto dalla disperazione, la chiede. Il medico ha il compito, a volte gravosissimo, di accogliere la vita, di prendersi cura della persona che ha di fronte fino alla morte naturale. Ha il compito di cercare la guarigione e, quando non possibile, di alleviare la sofferenza (esistono malattie inguaribili, ma non esistono malattie incurabili).
Il “sì” alla vita chiama in causa la vocazione più nobile del medico, che si trova davanti una vita nelle sue fasi più deboli e indifese, e se ne fa carico. Il medico non abusa del proprio potere, non si trasforma in aspirante stregone che tenta di evocare la morte del paziente, non lo può fare neanche lo Stato o un giudice. Banale ricordarlo, non si legifera mai su un caso particolare, perché la sofferenza è un percorso così personale e diverso da paziente a paziente che l’unica ingerenza esterna accettabile è la cura. La famiglia, gli amici, i colleghi, i medici, i sacerdoti, i volontari, i vicini: il “sì” alla vita chiede che attorno a una malattia inguaribile nasca una rete d’amore in grado di stare accanto al malato, perché la presenza negli ultimi momenti di vita di una persona è un’anticamera di Eterno. Lì Cielo e Terra si fanno vicini, lì è celato il senso del quotidiano, lì il coraggio di una mano tesa cambia la vita. Anzi, cambia due vite: quella di chi riceve l’ultima carezza e quella di chi la regala.
Sono argomentazioni impossibili da portare in un talk show? Può darsi, ma la vita non è fatta di slogan e una volta spenta la televisione bisogna fare i conti con la verità. Chi scrive queste cose non ha vissuto la sofferenza di persone care o non ha paura della malattia? Magari. Ma c’è una paura molto più grande, quella di uno Stato che inizia ad agire in favor mortis, mettendo cioè sulla disperazione del singolo il certificato generale che quella è una vita non degna di essere vissuta, pertanto i medici hanno il diritto di sopprimerla. Ogni volta che nella Storia lo Stato si è arrogato questo diritto, che non è un diritto ma un abuso, si è precipitati nell’orrore. Perché o la vita è un bene non disponibile sempre, oppure diventa un bene sempre a disposizione. Ma a disposizione del più forte.
Non serve tornare al buio dell’eutanasia e dell’eugenetica nazista, nate come risposta compassionevole verso vite non degne di essere vissute, basta guardare un poco oltre i confini italiani, nei Paesi dove la legge ammette queste pratiche e dove lo Stato già oggi agisce in favor mortis. La Treccani, parlando di eutanasia, dice che: «L’uccisione medicalizzata di una persona senza il suo consenso non va definita eutanasia, ma omicidio tout court, come nel caso di soggetti che non esprimono la propria volontà o la esprimono in senso contrario». Eppure questo è già successo, basta pensare alla storia terribile di Vincent Lambert. Vincent voleva vivere, i suoi genitori volevano che vivesse, ma per medici e giudici la sua vita non era degna di essere vissuta. È morto così, nella camera di un moderno ospedale francese (camera piantonata dal servizio d’ordine), dopo nove giorni di agonia senza cibo né acqua.
E che dire di Terri Schindler? Che dire di Charlie Gard e di Alfie Evans? Il fatto che l’informazione mainstream, curiosamente collaborativa con le richieste dello Stato riguardo i temi etici, abbia parlato poco e male di queste storie non cambia la realtà. Una bugia rimane una bugia, anche se viene ripetuta da tutti i principali canali televisivi europei. Cosa dire, infine, di quanto sta accadendo in Belgio e in Olanda, per fare solo due esempi? Leone Grotti, su Tempi, fotografa la situazione belga:
«La legge prevede che la Commissione di controllo possa verificare la legalità di un caso di eutanasia soltanto a posteriori, solo cioè quando il paziente è già deceduto. Ma per stessa ammissione dei commissari, questo controllo è di fatto impossibile: non solo perché i membri della Commissione devono basarsi sulla dichiarazione del medico senza poter verificare ciò che viene scritto nei rapporti, non solo perché i medici che realizzano più eutanasie nel paese sono anche quelli che siedono all’interno della Commissione, non solo perché non possono controllare i casi di eutanasia illegale, ma anche per mancanza di tempo dovendo analizzare più di 200 casi durante ogni riunione (che dura dalle due alle tre ore). La somma di questi problemi fa sì che in vent’anni un solo dossier sia stato passato alla magistratura. Questo non significa però che la legge non venga violata: dai sondaggi effettuati tra i medici belgi per studi scientifici è emerso che il 26% delle eutanasie condotte nel 2013 nelle Fiandre non aveva ottenuto il consenso del paziente, mentre il 35,5% delle eutanasie non era stato dichiarato dal medico alla Commissione».
Com’è possibile che tanti paladini della libertà non riconoscano i pericoli di un nuovo Stato totalitario? Forse i tanti slogan sui diritti civili rimbalzati sui media, a scuola e nei concerti alla fine non sono altro che consolante retorica e ticket da pagare per accedere ai salotti che contano? Una cosa è certa: pensare che l’odio, l’ideologia e la brama di potere possano infiltrarsi anche nella fragilissima condizione di una malattia inguaribile mette i brividi. Restiamo umani. (Riproduzione riservata)
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