Indi Gregory, sentenza di morte
EDITORIALE I giudici hanno respinto anche l'ultimo appello per trasferire la bambina all’ospedale pediatrico Bambino Gesù. Lunedì 6 i medici praticheranno l’eutanasia rimuovendo i supporti vitali
Ha vinto il favor mortis. Ha vinto quell’ideologia antiumana conosciuta con Terri Schindler, Eluana Englaro, Charlie Gard, Alfie Evans, Vincent Lambert e con tanti altri volti che non sono riusciti a dissipare la nebbia imposta dai media mainstream. La Corte d’Appello ha respinto anche l’ultimo ricorso: Indi Gregory deve morire. La conferma è arrivata adesso dalla BBC. Ora solo un miracolo potrebbe spezzare il copione di morte interpretato dal Queen’s Medical Centre di Nottingham. Lunedì 6 novembre alle 14 (le 15, ora italiana) il personale sanitario dell’ospedale inglese rimuoverà i supporti che aiutano la piccola Indi a respirare e a ricevere idratazione e nutrizione. È questione di giorni, forse di ore. Dean Gregory e Claire Staniforth, i genitori, potranno solo assistere impotenti all’eutanasia praticata sulla loro bambina.
La giustizia inglese non ha detto “no” solo al trasferimento di Indi all’ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma, ha ribadito il “no” netto alle cure. Indi non deve più essere curata, Indi deve morire. Lo Stato che agisce in favor mortis trasforma la vita da bene non disponibile a bene a disposizione del più forte. E lo fa con la menzogna più subdola: il “best interest”. È la compassione che fa dire a medici e giudici inglesi che la vita di Indi Gregory non è degna di essere vissuta. È piccola, è malata, è fragile, è un costo per la sanità. Non è guaribile, dicono. Ma è curabile, rispondono i genitori. Risponde ogni uomo o donna che abbia conservato l’umanità.
Anche di fronte a malattie inguaribili, anzi soprattutto di fronte alle malattie inguaribili, i medici hanno il dovere etico e deontologico di curare. Di stare accanto al paziente fino alla morte naturale. Cercando di alleviare la sofferenza, mitigando il dolore, combattendo la solitudine e scacciando la disperazione.
Sia chiaro: se crolla questo, non rimane nulla. Non rimangono fondamenta a sostegno della società colta, democratica e tecnologica del 2023. Tutto cade, ogni retorica di accoglienza delle vite fragili e ogni promessa di nuove campagne per la salute pubblica. La sospensione delle cure vitali alla piccola Indi Gregory è un urlo disperato all’opinione pubblica: sveglia! Questo sistema non ha a cuore il bene comune, questo sistema mente quando parla di salute collettiva, questo sistema è dominato da apprendisti stregoni che vogliono manipolare la vita.
Ma dov’è l’Europa? Dove sono le istituzioni poste a tutela dei diritti dell’uomo? Dov’è la voce della Chiesa? Dove sono le organizzazioni non governative che chiedono fondi per difendere i più deboli? Dove sono i personaggi famosi, gli influencer, gli sportivi sempre pronti a sposare la causa di uno sponsor? Non ci sono canzoni per Indi, non ci sono gessetti colorati, non ci sono monumenti illuminati, non ci sono multinazionali che preparano costosissime campagne di marketing. Non c’è nulla per Indi, se non il cuore spezzato di migliaia di cittadini che hanno seguito la sua vicenda a fatica, scavando oltre il silenzio della stampa mainstream.
È il deserto di un tempo presente che finge di divinizzare l’uomo per poi trasformarlo in pedina grigia, che nulla vale senza le etichette adesive generosamente elargite dal potere. Sono etichette biodegradabili, durano il tempo di una bugia ma regalano l’illusione della libertà. Indi chiedeva solo il riconoscimento del valore incommensurabile della sua vita. Una vita unica e irripetibile. Ma non esistono etichette adesive biodegradabili capaci di sostituire la verità. Non dimentichiamo Indi, perché siamo tutti Indi. (Riproduzione riservata)
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