Fact-checker, cosa il giornalismo non è
EDITORIALE I giornalisti non devono educare i lettori, devono informarli. Stop al connubio, ontologicamente impossibile, fra stampa mainstream e debunker. Tornare alla deontologia
I giornalisti non sono educatori. Non spetta ai giornalisti contribuire direttamente alla crescita umana delle persone. Vale la pena ricordarlo, perché l'annuncio di Mark Zuckerberg di dire addio (almeno in America, per ora) ai fact-checker sta suscitando nella stampa mainstream un panico inspiegabile. «Comunque la si pensi politicamente, infatti, non è una buona notizia che Meta abbia deciso di eliminare sui suoi social il fact-checking (cioè, il controllo della veridicità dei fatti)», scrive Gigio Rancilio su Avvenire l'8 gennaio 2025. Intanto una premessa: Meta non ha deciso di eliminare il controllo della veridicità dei fatti, perché non lo ha mai avuto. Meta ha annunciato di voler abbandonare i fact-checker (noti anche come “debunker”): sulla carta gruppi di osservatori indipendenti impegnati a segnalare le fake news, nel concreto solerti censori (sovvenzionati anche da Meta) di ogni informazione che possa indebolire la narrazione dominante.
Negli ultimi anni Meta si è comportato come un editore, ha scelto una linea editoriale e ha censurato ogni voce dissonante. Che la linea editoriale del colosso social coincida con la narrazione dominante è ovviamente un puro caso fortuito (“nessun complottismo rilevato” semicit.). I fact-checker questo fanno: un utente scrive che non riceverà i farmaci sperimentali anti covid per motivi di coscienza e, grazie al lavoro dei solerti censori, Meta oscura il post allegando un articolo nel quale i debunker spiegano che l'obiezione di coscienza è una teoria del complotto. Fact-checker, debunker, “controllori della veridicità dei fatti” sono utilizzati come sinonimi.
Perché oggi buona parte della stampa insorge in difesa dei fact-checker? Per un insopportabile complesso d'inferiorità. Perché, avendo sposato in pieno la narrazione dominante, buona parte della stampa mainstream è entrata di diritto nel circolo vizioso del “controllo della veridicità dei fatti” attuato da Meta: un utente critica (con rispetto e argomentazioni solide) una notizia lanciata dal mainstream, i debunker intervengono riportando stile copia-e-incolla quanto detto dal mainstream. Non si entra nel merito, non si argomenta, non si controbatte, si alza la voce. Cosa può il singolo utente, che pure ha postato una informazione verificata, contro stampa, debunker e proprietario del social?
Questa operazione non difende la verità nel dibattito, semplicemente cancella il dibattito. Trasforma in dogma slogan che vengono ripetuti ossessivamente fino a entrare artificiosamente nella consuetudine di un'opinione pubblica pigra e in perenne crisi adolescenziale. «Il green pass dà la garanzia di trovarsi tra persone non contagiose» è stato affermato dal premier Mario Draghi in conferenza stampa e subito rilanciato dalle principali testate giornalistiche italiane. Chi ha osato criticare, o semplicemente chiedere le fonti oggettive di questa affermazione, è stato oscurato e segnalato con l'accusa infamante di “negazionista”. Accusa che, usata fuori dal contesto storico in cui è nata, denota un cinismo fuori scala.
Il 9 gennaio 2025 Martina Pennisi sul Corriere della Sera spiega che senza fact-checker gli utenti saranno liberi di diffondere la disinformazione, usando espressioni quali: «Le donne? Oggetti per l’arredamento». Ora, se una persona ha bisogno di una squadra di debunker per comprendere che le donne non sono oggetti per l'arredamento, il problema è serio. E non può essere risolto né dai debunker né dai giornalisti. Il problema non sono gli idioti che insultano (se Martina Pennisi vedesse quanti insulti irripetibili ho collezionato negli anni scrivendo di problemi etici, raccontando storie come quella di Indi Gregory, etc etc), bensì l'oscuramento delle notizie. Oscuramento che impedisce ai cittadini di compiere scelte veramente libere.
Se Mario Rossi non vuole ricevere un farmaco sperimentale ma il potere gli dice che è un vaccino sicuro ed etico, la stampa lo ripete compulsivamente e i debunker nascondono chiunque parli dei problemi etici e medici, che consenso libero e informato potrà dare Mario Rossi? L'esempio, certamente comprensibile ai lettori della prima ora di questa newsletter, non è casuale: gli articoli qui pubblicati che hanno affrontato temi scomodi sono stati immediatamente segnalati e ne è stata ridotta la visibilità. Non sono stati smentiti, non c'è stata alcuna richiesta di rettifica, semplicemente non sono più apparsi tra le condivisioni sui social né tra i risultati di ricerca di Google.
Dove il debunker influenza, il giornalista informa. Il nostro codice deontologico impone: «Il giornalista difende il diritto all’informazione e la libertà di opinione di ogni persona; per questo ricerca, raccoglie, elabora e diffonde con la maggiore accuratezza possibile ogni dato o notizia di pubblico interesse secondo la verità sostanziale dei fatti. Il giornalista rispetta i diritti fondamentali delle persone e osserva le norme di legge poste a loro salvaguardia». Al giornalista che Mario Rossi riceva zero, una o cento dosi di un farmaco sperimentale importa relativamente. Al giornalista importa però che Mario Rossi le riceva liberamente (senza pressioni né ricatti) e avendo avuto accesso a tutte le notizie disponibili su quelle dosi. E magari facendosi pagare profumatamente, come avviene durante le sperimentazioni.
La libertà del cittadino, la libertà informata e consapevole del cittadino, è la prima responsabilità del giornalista. Il giornalista e il lettore dovrebbero essere dalla stessa parte della barricata nel chiedere ai governi e ai gruppi di potere trasparenza, informazioni verificabili, libertà di coscienza. L'alleanza tra giornalisti e misteriosi debunker è ontologicamente impossibile, nasce da una debolezza nella ricerca della verità e muore con la perdita di ogni credibilità. I cittadini hanno il diritto di accedere a tutte le notizie, anche e soprattutto quelle sgradite al potere (potere politico, economico, mediatico, etc). I social sono strumenti utili per i giornalisti ma non sono il loro primo terreno, che è e deve rimanere la realtà.
Le bufale si combattono con le notizie, non con la censura. I cittadini non sono bambini da educare, ma interlocutori degni di rispetto e meritevoli di professionalità e indipendenza. La strada in Europa è tutta in salita, perché qui vige il Digital Service Act che continua a limitare la visibilità non tanto delle bufale, bensì delle notizie che possono turbare gli slogan rasserenanti cantati h24 in filodiffusione. È necessario l’intervento dell'Ordine dei Giornalisti, insieme ai sindacati di categoria e a tutti i professionisti dell'informazione che hanno a cuore la democrazia. Caro Mark Zuckerberg: «È la stampa, bellezza». (Riproduzione riservata)
Costanza Miriano, giornalista (Rai Vaticano), con un post pubblicato proprio su Facebook commenta: «Mi fa abbastanza ridere che adesso Zuckerberg dica “stop al fact checking”. Finora non c'è stato nessun fact checking, si chiama censura, precisamente, quello che c'è stato su Facebook fin qui. Adesso che un bel po' di gente si è rotta le scatole, adesso che ha “vinto” quello che sostiene libertà assoluta nella comunicazione sulle piattaforme digitali, i padroni stanno facendo un ragionamento in merito e, se posso azzardare, non credo per amore della verità, ma probabilmente secondo altri criteri (economici, immagino). Ci sono argomenti che solo il nominarli ti fa cadere sotto la scure dello shadow-ban, e non è certo per amore della verità. Il tema covid e vaccino, per esempio, è stato sicuramente uno di questi, anche quando parlare di fact-checking faceva ridere i polli perché dei fatti nessuno sapeva con certezza, si potevano fare solo ipotesi (alcune delle quali poi smentite dai fatti, altro che fact-checking), e anche un'ipotesi moderatissima se considerata “non conforme” era zittita. Non parliamo poi dell'aborto e della difesa della vita, un altro fra i temi che fa scattare la scure del politicamente corretto. Solo nominare la 194 in modo non entusiastico fa diminuire del 90% la visibilità dei post. Anzi, vediamo se succede ancora. Prova prova prova. Per me la 194 è una legge cattiva». (Riproduzione riservata)
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